mercoledì 28 marzo 2018

Processo da 8000 euro per una melanzana!!

Luca Telese porta l’attenzione sull’assurdità e il controsenso della nostra giustizia commentando un caso che ha del ridicolo:

“La grandissima vergogna del processo da 8 mila euro per il furto di una melanzana”

"La vicenda dell’uomo assolto in Cassazione per aver tentato di rubare l’ortaggio è lo specchio del sistema giudiziario malato. Un processo pagato con i soldi nostri che ha intasato il tribunale e ha ritardato altri procedimenti, di certo meno grotteschi.

Dai ladri di biciclette del neorealismo italiano ai ladri di melanzane del tempo di crisi. C’è da rimanere a bocca aperta, leggendo la notizia scovata da Chiara Spagnolo, corrispondente da Bari di la Repubblica, sul processo, che si è celebrato per ben tre gradi di giudizio  (arrivando fino in Cassazione) per il furto di una melanzana. Si resta basiti, perché la notizia sembra quasi costruita per sconfinare nel teatro dell’assurdo, e per diventare un modello di malagiustizia, un nuovo apologo sul malfunzionamento del nostro sistema. L’imputato infatti, in primo grado era stato condannato – nientemeno a cinque mesi di reclusione e 300 euro di multa. In appello si era preso due mesi e 120 euro di multa. Finché finalmente – ma solo in terzo grado – i giudici sono arrivati alla sospirata assoluzione con la motivazione della “tenuità” (si dice proprio così) del reato.


Ci sono voluti dunque tre gradi giudizio, e una spesa processuale che allo Stato è costata tra i sette e gli ottomila euro, solo di gratuito patroncino, perché qualcuno, nel sistema giudiziario italiano, finalmente si accorgesse che non si può mandare in prigione un uomo che si è appropriato di un ortaggio del valore stimato di soli venti centesimi (c’è stata una perizia che ha stabilito il valore esatto).

Ma il bello è che – spulciando gli atti processuali – si capisce che anche tutti gli altri elementi della storia portavano in modo naturale all’idea di una assoluzione necessaria. L’autore del furto, un quarantanovenne sardo residente in provincia di Lecce, di cui conosciamo solo le iniziali, S.S. – infatti – non era stato denunciato dal contadino che aveva subito la sottrazione dell’organico. Era stato fermato dai carabinieri nella campagna di Carmiano, a pochi chilometri da Lecce, con la fatidica melanzana in mano.


E, date le condizioni, il proprietario del fondo aveva scelto di non procedere nei suoi confronti, evitando di sporgere denuncia: tuttavia, S. S. è stato processato in nome del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. La richiesta di condanna del pubblico ministero, udite udite, era il massimo della pena prevista per il furto: ovvero sei anni. Ed è stato necessario arrivare al secondo grado di giudizio, perché l’avvocato d’ufficio (Dio lo benedica, il patrocinio gratuito, grande istituto di civiltà) riuscisse a dimostrare che il furto non era stato consumato, facendo passare così il capo d’accusa da “furto” a “tentato furto”.

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Si esce da questo racconto chiedendosi come possa convivere una simile draconiana persecuzione, con la lassività che il nostro sistema giudiziario rivela in tante altre vicende: con tanti imputati assolti, graziati, condonati, prescritti. Con quelli delle case a loro insaputa, dei terremoti, degli appalti, che per prassi – quando possono permettersi sontuose difese, cioè quasi sempre – la fanno franca.

La lezione della melanzana, dunque, è semplice e feroce: ci sono due pesi e due misure, in Italia. E “se sei povero – come diceva il saggio – ti tirano le pietre”. Forse bisognerebbe aggiungere che questo processo non è stato gratis: lo abbiamo pagato noi, con il denaro pubblico. Ha intasato le aule giudiziarie, ha ritardato altri processi, di certo meno grotteschi. Vergogna. Grandissima vergogna."


Come dice Telese, la giustizia è molto brava con i poveri e meno con i ricchi.

Per i ricchi e i politici è sempre vero, ma aggiungo che molto spesso, per reati molto gravi come omicidio, stupro, furti, ecc., anche con certi poveri è molto clemente, visto che quasi sempre nessuno di chi commette questi reati fa qualche anno di galera. La nostra giustizia è assurda lasciando liberi o liberando troppo spesso elementi pericolosi che poi inevitabilmente commettono lo stesso reato e ve ne aggiungono degli altri.

Purtroppo non si può, ma se a volte fossero i giudici a pagare per le loro scellerate sentenze quando lasciano in libertà persone che poi delinquono ancora, forse qualche persona pericolosa in meno circolerebbe.
(MS)

martedì 27 marzo 2018

Un pensiero per Fabrizio Frizzi


Oggi voglio dedicare un pensiero a Fabrizio Frizzi, il conduttore televisivo che si è spento ieri a 60 anni lasciando una moglie giovane e una figlioletta di appena 5 anni. Ma lasciando anche un vuoto nella televisione italiana e nelle case di chi lo guardava.

Ieri la Rai ne ha tanto parlato, come fa spesso quando muoiono persone che hanno fatto la storia della televisione ma, diversamente da altre volte, ho visto una commozione più vera, meno ipocrita da parte di chi ha voluto dare un ricordo su Fabrizio.

Quasi sempre il mondo dei VIP è molto lontano dai cittadini, pieno di persone presuntuose e inavvicinabili che vivono di polemiche e gossip. Non è invece il caso di Frizzi che ha lasciato in tutto il mondo dello spettacolo un ricordo indelebile e di amicizia.
Ma ha lasciato anche nei telespettatori l’impressione di aver perso un amico, un compagnia che entrava nelle case soprattutto nelle ore serali con la sua allegria e simpatia. Anche nell’ultimo periodo nel quale non era in salute, in tv non ha mai fatto trapelare nulla della sua sofferenza rimanendo sempre con il sorriso sulle labbra. Una persona che è sempre rimasta se stessa e non si è mai “gonfiata” con il successo.

Educato, simpatico e gentile, ha sempre tenuto la sua vita protetta nella riservatezza. Amava la moglie e stravedeva per la figlioletta Stella che perde un padre meraviglioso.

Uomo estremamente generoso, ha però sempre fatto del bene senza sbandierarlo, come è giusto che sia per chi lo fa con il cuore e non per vantarsene. Donò persino il midollo ad una bambina salvandole la vita e sicuramente molti lo hanno imparato solo ieri dopo la sua morte.

Credo rimarrà nel cuore e nei pensieri di tutti per molto, molto tempo.

lunedì 26 marzo 2018

Fico rinuncia all'indennità di funzione

Roberto Fico, neo eletto presidente della Camera grazie ai voti del M5S e del Centrodestra, si dimostra già coerente con le sue idee e con quelle del M5S.

Infatti, dopo appena 2 giorni dal suo insediamento, ha già deciso di rinunciare all'indennità di funzione. Lo ha annunciato al TG1:


Rinuncio totalmente alla mia indennità di funzione da presidente della Camera. L’epoca dei privilegi è finita, dobbiamo tagliare i costi della politica e razionalizzare i costi della Camera”.

Già quando venne eletto al vertice della commissione parlamentare di Vigilanza sulla Rai, Roberto Fico aveva rinunciato all'indennità di funzione (26.712,00 euro l’anno) e all'auto blu.

Chissà se altri seguiranno il suo esempio?


Governo: un inizio di cambiamento?


Finalmente abbiamo i presidenti di Camera e Senato che rappresentano, che piaccia o no (come nel caso della Casellati su cui molti nutrono dubbi di essere troppo vicina a Silvio Berlusconi), il volere degli italiani espresso chiaramente alle elezioni del 4 marzo con quasi il 38% al Centrodestra e il 33% al M5S. 
 
Il Partito Democratico è rimasto, come giusto, fuori dai giochi. Anche in questo gli elettori si sono espressi chiaramente e, nonostante qualcuno sperasse in un accordo con il M5S (soprattutto chi vede Salvini come il fumo negli occhi, contraddicendosi spesso con quanto detto prima contro Renzi), fortunatamente il Pd è stato escluso dalle 2 poltrone.  

 
Il Pd, con Matteo Renzi, ha fatto pessime scelte quando è stato al governo facendo leggi inutili e costose sul lavoro, favorendo un’immigrazione incontrollata che arricchisce solo ong e cooperative ma crea danni ai cittadini, tagliando sempre più i fondi alla Sanità e perdendo tempo nell’ostinazione di  voler cambiare la Costituzione togliendo democrazia al paese (cosa stroncata al referendum).
 
Questo ha fatto sì che il Pd abbia perso ogni credibilità e ha fatto in modo che i cittadini, stanchi di tutto ciò e venendo da 4 governi non eletti, abbiano dato un segnale chiaro di volere un cambiamento radicale.
 
Questo cambiamento è cominciato (anche se con qualche "compromesso" che, per ora, va accettato), speriamo continui con la scelta del Presidente del Consiglio.
 
(Pubblicato sul Fatto Q. del 27 marzo 2018)

venerdì 23 marzo 2018

Governo impossibile? Grazie al Rosatellum


Come era prevedibile, con una legge elettorale assurda come il Rosatellum con cui siamo andati a votare il 4 marzo (nata dal governo Pd in carica per osteggiare il M5S), fare un governo è un’impresa pressoché  impossibile.
 
Anche perché ci sono partiti, come Forza Italia e Lega (con alcune appendici di poco conto come Fdi e Nci-Udc), che si sono alleati per “vincere” le elezioni ma poi non trovano una quadra comune nemmeno dentro la stessa loro coalizione.


 
Silvio Berlusconi, pur non contando più nulla istituzionalmente, continua a voler comandare nel proprio partito e anche dentro la Lega volendo candidare i nomi che più gli fanno comodo, per esempio Paolo Romani al Senato, persona inaccettabile per le sue condanne e, giustamente, ineleggibile per il M5S. E Matteo Salvini non riesce (o non vuole) staccarsi da B.
 
Questo provoca l’ennesimo stallo nell’eleggere i presidenti di Camera e Senato persino nel giorno stesso dell’elezione.
Si riuscirà a formare un governo che possa governare e cominciare a risolvere i problemi urgenti del paese? Purtroppo in Italia tutto viene sempre visto a livello politico, si litiga tra forze politiche incuranti del bene dei cittadini.

 

giovedì 22 marzo 2018

L'Antitrust ferma i furbetti della telefonia

L’Antitrust prova a fermare le compagnie telefoniche che probabilmente hanno fatto “cartello”, bloccando “in via «cautelare» ma con «ragioni di estrema gravità e urgenza»”, tutti i rialzi tariffari annunciati da Telecom, Vodafone, Wind Tre e Fastweb dopo lo stop alla fatturazione a 28 giorni e l’obbligo al ritorno a quella mensile.

Gli aumenti partirebbero dal 24 marzo, ma in quell’8,6% in più che ogni consumatore si sarebbe trovato a pagare, il Garante della concorrenza ha ipotizzato un’intesa tra le compagnie (ma va??).

L’Antitrust il 7 febbraio ha avviato un’istruttoria sui comportamenti dei 4 operatori, ritenuti troppo simili (un tantino uguali no?) dopo il divieto alle bollette su 28 giorni e con un risultato identico: un ritorno alla fatturazione su 12 mesi anziché 13 ma con un aumento uguale per tutti dell’8,6% che, di fatto, fa in modo che il loro rincaro precedente (con il passaggio del 2017 alla fatturazione a 28 giorni) rimanga in essere.

La richiesta di stop ai rialzi è stata fatta affinché ogni compagnia «definisca la propria offerta in modo autonomo». Gli ispettori dell’Antitrust hanno raccolto prove di contatti «quasi giornalieri» tra i 4 operatori che, attraverso l’associazione di categoria Asstel, si sarebbero accordati per «mantenere fermo l’aumento dell’8,6%», a danno delle «dinamiche competitive sui mercati rilevanti».

Le 4 compagnie hanno 7 giorni per provare il contrario. Fastweb ci ha già provato facendo sapere «di aver agito sempre correttamente e di aver costantemente perseguito politiche commerciali indipendenti dai concorrenti». L’istruttoria va avanti. Ogni operatore rischia sanzioni fino al 10% del fatturato.

Chissà se si riuscirà mai a fare in modo che queste aziende si comportino in maniera corretta verso i consumatori con una sana concorrenza?

I "signori" delle autostrade, ricchi con poca spesa

Dagospia ha pubblicato un estratto dell'interessante libro  ’Avvoltoi’’ di Mario Giordano che parla dei tanti personaggi che mangiano sulla nostre spalle e con i nostri saldi.

Tra questi non mancano i “signori delle Autostrade”.
“L’ex ministro Di Pietro la definì «una cuccagna». Che c’è di meglio che gestire l’autostrada? Stai lì al casello, aspetti che passino le auto e fai i soldi. A ogni Capodanno, cascasse il mondo, arriva l’aumento delle tariffe. Ormai fa parte della tradizione: ci sono il veglione, il panettone, zampone, lenticchie, il conto alla rovescia a Times Square. E i rincari al casello. Dal 1999 a oggi le tariffe autostradali sono aumentate del 75 per cento, a fronte di un aumento dell’inflazione solo del 37 per cento. Non basta? Macché.
Infatti nel gennaio 2018, puntuale come il botto dello spumante, è arrivato il botto di un ulteriore aumento: in media 2,7 per cento in tutta Italia, ma con punte del 12,89 per cento sulla appena citata Strada dei Parchi, del 13,91 per cento sulla Milano-Genova nel tratto Milano-Serravalle e del 52,69 per cento sull’Aosta-Morgex. Ci sono state proteste, rivolte di pendolari, sindaci in piazza con tanto di fascia tricolore, il magistrato anticorruzione Cantone ha aperto un’inchiesta, Milena Gabanelli si è indignata sul «Corriere» («perché tutti parlano dei sacchetti di plastica e nessuno interviene sui pedaggi?»). Ma nessuno è riuscito a rispondere alla domanda fondamentale: perché le tariffe dell’autostrada aumentano anche quando gli altri prezzi restano fermi? E soprattutto: dove finiscono quei soldi?
Ogni anno gli italiani hanno pagato pedaggi per quasi 6 miliardi di euro, molto più di quanto pagavano con la tassa sulla prima casa, il triplo di quello che pagano con il canone Rai. Di questi soldi, solo una minima parte va allo Stato: 842 milioni. Il resto rimane nelle tasche delle 24 società che gestiscono le 25 concessioni in cui è divisa la nostra rete autostradale. E voi direte: come li spendono questi soldi? Per pagare il personale (circa 1 miliardo). Per gli investimenti (circa 1 miliardo). Per la manutenzione (646 milioni). Per le altre spese. Ma poi alla fine una bella fetta (1,1 miliardi) viene distribuita sotto forma di moneta sonante ai soci, per lo più privati. Ai quali, per l’appunto, non sembra vero di aver trovato l’albero della cuccagna.
Ma perché gli automobilisti italiani devono pagare tariffe, sempre più care, per arricchire i signorotti feudali del casello? Questo è uno dei grandi misteri italiani che nessuno è mai riuscito a spiegare. Il pedaggio, come è noto, nasce per ricompensare gli investimenti effettuati.
Il principio è semplice: il concessionario costruisce, l’automobilista paga. Casello dopo casello, esodo dopo esodo, vengono così rimborsate tutte le spese sostenute per realizzare l’opera. Il punto è questo: che succede quando tutte le spese sono state recuperate fino all’ultimo centesimo? Si continua a pagare il pedaggio? E perché? È un po’ come se uno che ha fatto un mutuo con la banca, arrivato allo scadere dell’ultima rata, si sentisse dire: abbia pazienza, ma deve pagare ancora per i prossimi vent’anni. Ma per quale motivo? Per arricchire la banca? Come se non avesse abbastanza soldi?
I concessionari delle autostrade di soldi ne hanno molti. Ma proprio molti. Non è un caso se, oltre a spartirsi dividendi, vanno a fare shopping in giro per il mondo. Spendono e spandono, tanto a loro che importa? C’è sempre un pedaggio che li fa ricchi. Secondo il professor Giorgio Ragazzi, uno dei massimi esperti del settore e uno dei pochi che ha cercato di far luce sull’intricato mondo dei signori del casello, tutti gli investimenti effettuati per costruire le autostrade erano già ampiamente ricompensati alla fine degli anni Novanta.
Eppure, da allora si è continuato a rinnovare le concessioni, fino al 2038, fino al 2046, fino al 2050, sempre in via diretta, sempre senza gare, anche rischiando sanzioni dall’Ue. Ci si è sobbarcati qualsiasi rischio e onere pur di riempire di denaro le tasche di questi fortunati. Ancora nel luglio 2017 il governo è andato a Bruxelles per ottenere il prolungamento delle proroghe e l’ha presentato come un suo successo. Ma siamo sicuri che sia un successo? Il prolungamento delle proroghe? Davvero gli italiani non desideravano altro?
Macché. Il fatto è che gli italiani sono stati tenuti all’oscuro. Vietato parlarne. Mi è capitato una volta, in una popolare trasmissione tv di Raiuno dedicata al tema della concorrenza, di citare le autostrade, sono stato sommerso di messaggi stupiti: davvero? Hai parlato di autostrade? Ci sei riuscito? Come hai fatto? Eppure il pedaggio al casello lo paghiamo tutti, e ogni anno più caro. Fra il 2011 e il 2016 l’aumento medio delle tariffe è stato del 14 per cento. Nello stesso periodo gli investimenti si sono dimezzati. E ciò dimostra che quel pedaggio non è il prezzo per un servizio reso né la ricompensa per un investimento fatto: è semplicemente, come spiega ancora il professor Ragazzi, «un’imposta tout court».
Un’imposta il cui gettito, però, per una buona parte non finisce nelle casse dello Stato, ma nelle tasche dei soci delle aziende, molto spesso privati, che si sono conquistati questa roccaforte d’oro e non la mollano più. Anzi, ogni anno contrattano un aumento.
Infatti questa imposta, che non avrebbe più ragione d’essere, non solo non viene mai rimessa in discussione, ma diventa ogni anno più salata. Come mai? Il calcolo dell’aumento tariffario avviene in una maniera molto complicata, ma sostanzialmente sulla base di quattro elementi: l’inflazione, la qualità del servizio, il «fattore X» e il «fattore K».
Già la qualità del servizio è piuttosto discutibile (è un complesso parametro basato su pavimentazione e indici di mortalità: ma se, per esempio, la mortalità si riduce perché viene introdotta la patente a punti o perché la polizia stradale aumenta i controlli, che merito ha chi gestisce l’autostrada?). Gli altri due indici, poi, sono totalmente fumosi, anche perché sono tenuti rigorosamente segreti. In teoria il fattore X dovrebbe tener conto della produttività e il fattore K dovrebbe tener conto degli investimenti. Ma, di fatto, sono così misteriosi che sembrano studiati apposti per lasciar spazio alla trattativa tra ministero e gestori, una specie di braccio di ferro che si ripete ogni anno e che è il vero meccanismo con cui si decidono gli aumenti delle tariffe. Ovviamente, sempre a scapito degli automobilisti-contribuenti.

Bankitalia ha calcolato infatti che ogni chilometro di autostrada nel nostro Paese rende 1,1 milioni di euro (il doppio della Spagna, il triplo della Grecia, infinitamente più della Germania dove le autostrade sono gratis). Di questi la gran parte (850.000 euro al chilometro) finisce alle concessionarie. Che, per altro, ci aggiungono ulteriori guadagni: per esempio gestendo le attività commerciali sulla rete autostradale e assegnando appalti per i lavori di manutenzione a società che fanno parte del loro stesso gruppo. Non è un incastro meraviglioso?
Questi sono i famosi imprenditori privati italiani, bravissimi come sempre ad assumere il rischio d’impresa a patto di avere le spalle ben coperte dal denaro pubblico: ottengono concessioni senza gare, gestiscono appalti senza concorrenza e soprattutto non rischiano mai un soldo di tasca loro, perché gli investimenti (quando ci sono) se li fanno pagare in anticipo dagli italiani. Quando la società Autostrade era pubblica, si diceva fosse la «gallina dalle uova d’oro» dello Stato.


È rimasta tale, evidentemente. Solo che le uova d’oro finiscono direttamente dal casello alle tasche dei Gavio o dei Benetton, che non a caso guidano la classifica dei Paperoni 2017: il patrimonio dei primi è cresciuto del 101 per cento, passando da 1,9 a 3,9 miliardi di euro; il patrimonio dei secondi è cresciuto del 20,2 per cento, passando da 6,8 a 8,1 miliardi di euro. Fortunati loro, si capisce. Ma noi potremo almeno chiederci se è giusto farci spennare al casello per renderli sempre più ricchi? 
In questi anni ci si è fatti molto spesso (ma sempre molto sommessamente) diverse domande. Per esempio: perché l’Iri vende una gallina dalle uova d’oro? Perché a quel prezzo? E perché lo fa subito dopo che la società Autostrade ha ottenuto il rinnovo della concessione fino al 2038? L’economista Giorgio Ragazzi, che ha studiato a fondo la materia, sostiene che in quel momento l’Iri non aveva bisogno di far cassa, dal momento che gli obiettivi di risanamento finanziario per l’entrata nell’Ue erano già stati raggiunti: perché vendere quel tesoro, allora? E perché venderlo senza mettere clausole più severe sulle tariffe? Oppure chiedendo in cambio più soldi, come è accaduto in altri Paesi europei? La vendita della gallina delle uova d’oro, infatti, rese allo Stato 6,7 miliardi di euro. Se non fosse stata venduta, in questi vent’anni avrebbe portato nelle casse pubbliche molto di più.
Invece quei soldi sono finiti ai privati. E, a proposito di privati e di soldi, mi sia concesso un inciso: lo sapete chi era il presidente dell’Iri fra il 1997 e il 1999, cioè quando sono state prese le decisioni fondamentali per la privatizzazione delle autostrade? Gian Maria Gros-Pietro, pezzo grosso dell’economia italiana, professore universitario alla Luiss, origini torinesi, frequentazioni in tutti i salotti che contano, forte amicizia con Prodi. E lo sapete che incarico ha avuto, dopo la privatizzazione delle autostrade, il professor Gros-Pietro? Fra il 2003 e il 2010 è stato presidente di Atlantia, la società del gruppo Benetton che controlla, per l’appunto, le autostrade privatizzate.
Succede anche questo in Italia: uno è presidente di una società pubblica, vende a un privato un pezzo del suo impero e poi va a lavorare con il medesimo privato. Tutto legale, tutto regolare, come il compenso che Gros-Pietro percepiva dai Benetton: oltre 1 milione di euro l’anno. Fra l’altro: adesso il professore ha cambiato azienda, ma è rimasto nel settore. È diventato presidente della Astm, la holding che controlla le autostrade private del gruppo Gavio. Si deve accontentare di 340.000 euro l’anno che però arrotonda con i 900.000 euro che gli dà Intesa Sanpaolo, dove è presidente. A lui, se non altro, il rincaro al casello non pesa troppo.
I Gavio incassano 3,5 milioni di euro al giorno
Andate in autostrada da Milano a Torino? Date un contributo a Gavio. Andate da Parma a La Spezia? Date un contributo a Gavio. Andate da Torino a Piacenza? Da Torino ad Aosta? Da Torino a Savona? Non cambia nulla: date sempre un contributo a Gavio. E anche se andate da Savona a Ventimiglia, sull’autostrada dei fiori. O se vagate sull’autostrada toscana fra Sestri Levante, Livorno, Lucca e Viareggio. O se attraversate il traforo del Fréjus. O il traforo del San Bernardo. O le tangenziali di Torino.


Non potete scappare: in ogni caso, volenti o nolenti, quando passate dal casello, lasciate un obolo per rendere sempre più grande l’impero dei signori di Tortona. Sono entrati nel settore autostrade nel 1995 con un piccolo investimento. Si trovano oggi a capo del quarto gruppo mondiale. Le loro due principali società quotate in Borsa valgono 3,9 miliardi di euro.
In Italia i Gavio gestiscono 11 concessioni, per un totale di 1460 chilometri di asfalto. Nell’ultimo anno (2016) hanno incassato, solo di pedaggi, 1.239.342.464 euro, cioè quasi 3,5 milioni al giorno. Proprio così: i signori di Tortona hanno un negozio che ogni giorno che il buon Dio manda sulla Terra mette in cassa 3,5 milioni di euro. Guadagni quasi sicuri, rischi quasi nulli. Una bella fortuna, no? Saranno pure bravi, nessuno lo mette in dubbio. Ma lo Stato è sempre stato piuttosto generoso con loro. Lo dimostra il fatto che alcune di queste concessioni proseguiranno ancora per anni e anni: una scade nel 2031, un’altra nel 2032, un’altra nel 2035, un’altra nel 2038, una addirittura nel 2050. Il 2050, ci pensate? Se sarò al mondo, avrò 84 anni. E la mia unica certezza è che i Gavio saranno ancora lì, ad aspettarmi al casello per chiedermi l’obolo…
Sapete qual è la giustificazione di queste concessioni così lunghe? Sempre la stessa. Dicono di dover recuperare il denaro investito. Abbiamo già visto che non è così, abbiamo visto che le concessioni si prolungano ben oltre il recupero dei capitali investiti, ma tant’è: i Gavio vengono da Tortona, terra di timorati e timorassi, e vogliamo metterli alla prova. Facciamo due conti: fra il 2008 e il 2016 le concessionarie del gruppo, come si vede dalla seconda tabella a fine paragrafo, si erano impegnate a fare investimenti per 5,3 miliardi.
Ne hanno effettuati in realtà solo 3,1, cioè all’incirca il 60 per cento del dovuto. In compenso nello stesso periodo la holding dei Gavio ha messo a disposizione dei soci utili per 522 milioni di euro. Quindi la domanda è la seguente: chi ottiene una concessione fino al 2050 per fare investimenti, non dovrebbe almeno avere il buon gusto di farli? E se invece ne fa 2 miliardi in meno, è giusto che si metta in tasca mezzo miliardo di utili? In altre parole: perché gli automobilisti devono pagare i mancati investimenti e le tariffe sempre più alte, mentre alcuni privati, benedetti dal casello, si arricchiscono alle loro spalle? (…)
Benetton/1. United Colors of Pedaggio
Chi mi ama mi segua. Ma prima paghi il pedaggio al casello. C’era una volta un’impresa simbolo del genio italico, Nordest creativo, colori e futuro, cardigan e pubblicità. La Benetton e quegli slogan choc di Oliviero Toscani: chi se li dimentica più? Solo che oggi andrebbero un po’ rivisti. Bisognerebbe dire, per esempio: United Colors of Pedaggio. Oppure: non avrai altro Telepass al di fuori di me. E al posto del corpo scheletrico dell’anoressica ci dovrebbe essere il borsellino dell’automobilista, altrettanto prosciugato.
La famiglia di Treviso, che partì povera e si arricchì con i vestiti, si appresta oggi a diventare leader mondiale delle autostrade, grazie all’acquisizione della spagnola Abertis. In Italia leader delle autostrade lo è già: attraverso le sue holding gestisce 3020 chilometri dei 5886 dati in concessione dal ministero dei Trasporti. Quindi oltre la metà. Sono 6 diverse concessioni che coprono una quantità infinita di tratte, dal Nord al Sud, a cominciare dalla Milano-Napoli, passando poi per la Milano-Serravalle, la Voltri-Gravellona Toce, la tangenziale di Napoli, il Traforo del Monte Bianco, l’autostrada Tirrenica, l’autostrada della Valle d’Aosta…
Ogni anno 2 miliardi di transiti al casello: ciò significa 5 milioni e mezzo al giorno, 230.000 l’ora, 63 al secondo. Proprio così: ogni secondo che passa ci sono 63 veicoli che stanno versando il loro generoso obolo nelle casse dei Benetton. Provate a contare: un secondo. Ne sono passati 63. Un altro secondo, zac: altri 63. Sentite il tintinnar dei quattrini?
Non ci si può stupire se, in questo modo, si costruisce un impero. Laddove c’era il maglioncino, adesso c’è un colosso delle infrastrutture, che si estende dal Cile all’India, dal Brasile alla Polonia, gestisce gli aeroporti di Roma, compra gli aeroporti (tre) della Costa Azzurra, ha imprese di costruzioni e ingegneria, e controlla pure il monopolio del Telepass. Nel 2016 ha incassato 5,4 miliardi di euro, in Borsa ne vale circa 8,1.
La maggior parte delle entrate arriva proprio dalla gestione delle autostrade, soprattutto da quando maglioncini e vestiti trendy hanno perso creatività e forza innovativa, come ha ammesso lo stesso Luciano Benetton in una storica intervista a «Repubblica» (30 novembre 2017) in cui, a 82 anni suonati, ha annunciato: «Torno in azienda. Avevo lasciato i manager ma loro hanno spento i colori. Ci siamo sconfitti da soli». (…)
Come non capirli? Contraddire il potente Castellucci è sempre pericoloso, mettersi contro la lobby autostradale al sapor di radicchio e maglioni colorati è sconsigliato. Però, scusate l’ardire, noi non possiamo fare a meno di leggere i dati ufficiali: tra il 2008 e il 2016 le tariffe sulla rete gestita dai Benetton sono aumentate del 25 per cento, ben oltre l’inflazione. Sul tratto autostradale della Val d’Aosta addirittura del 50 per cento. Se l’avesse fatto Gaetano al Bar Sport di Usmate-Velate la gente sarebbe scappata in massa. Invece dall’autostrada si può scappare solo un po’. È per questo che al casello i ricavi aumentano anche quando il traffico diminuisce, chiaro no?
Passiamo agli investimenti: nonostante l’indiscutibile risultato ottenuto con il valico dell’Appennino, la «società che investe di più» indubbiamente investe meno del previsto: manca almeno 1 miliardo e mezzo a quanto concordato al momento della concessione, che proprio per questo era stata prolungata fino al 2038. Avete capito bene: la concessione (stiamo parlando di quella di Autostrade per l’Italia, la più importante delle 6, che riguarda 2857 chilometri su 3020) dura fino al 2038 perché i Benetton avevano promesso quasi 10 miliardi di investimenti.


Qualcuno che protesta? Macché: silenzio generale.
(…) in questi otto anni l’azienda, con i soldi incassati grazie a tariffe sempre più alte, non solo ha fatto shopping nel mondo, non solo ha aumentato il suo patrimonio, ma ha anche distribuito copiosi dividendi ai suoi soci. Tre miliardi e mezzo, euro più, euro meno. Non è bellissimo? Un miliardo e mezzo di investimenti in meno, 3,5 miliardi di soldi in più in saccoccia. (…)
Benetton/2. Quanti regali ai signorotti di Treviso
Inutile dire che anche la concessione autostradale ai Benetton, come quella ai Gavio, viene prolungata (ripetiamo: fino al 2042) automaticamente. Senza che venga indetta alcuna gara. Eppure sarebbe obbligatorio in base alle regole europee, oltre che conveniente. Per aggirare l’impiccio di Bruxelles, e scialare in santa pace, viene usato, però, sempre lo stesso escamotage: ci si appiglia cioè agli investimenti (in questo caso la Gronda di Genova, la terza e la quarta corsia in Emilia e Toscana), dimenticando che in fondo quegli investimenti erano già previsti nei piani finanziari, e dunque negli aumenti di tariffa autorizzati negli anni passati. Ma che ci volete fate? Noi siamo fatti così. Generosi. (…)
Lo dimostra il caso della tratta tirrenica, 202 chilometri previsti e mai completati fra Livorno e Civitavecchia, sempre gestiti dalla società che fa capo a Treviso. A tutt’oggi i chilometri aperti sono appena 55, il piano di investimenti è fermo al 12 per cento di realizzazione (dodici per cento!), eppure la concessione è stata prolungata dal 2028 al 2046. Perché? Perché sì. L’Europa ci ha provato in tutti i modi a dissuadere l’Italia dal fare questo regalino senza motivo. Niente da fare. Noi testardi come dei muli. Quando c’è da dare una mano ai Benetton non ci fermiamo davanti a nulla.”


 

martedì 20 marzo 2018

L'immancabile ufficio per Renzi


Pare sia pronta una bella poltroncina (nel senso letterale del termine) per l’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi.
 

Siccome in questo paese chi entra in politica NON ne esce più ma tira a campare sempre e comunque tra poltrone e nomine varie, è già pronto pure un ufficio a Palazzo Giustiniani per il neo senatore Matteo Renzi.
 
Gli è stato assegnato, secondo quanto si apprende dall’Ansa, nell'edificio cinquecentesco dove hanno degli spazi di lavoro gli ex presidenti della Repubblica e del Senato, i senatori a vita e, per consuetudine, anche gli ex presidenti del Consiglio, come nel caso di Renzi.


L’ex segretario del Pd ha già visitato quella che sarà la sua postazione a Palazzo Giustiniani, forse per vedere se è di suo gradimento. Suoi coinquilini sono il presidente emerito e senatore a vita Giorgio Napolitano, Renato Schifani e Pietro Grasso, ex presidenti del Senato.

E per questi “diritti acquisiti” che non sono mai anticostituzionali per i politici, chi paga è sempre Pantalone….

lunedì 19 marzo 2018

Asl, lista d'attesa lunga? Il diritto alla visita comunque.

Pochi sanno che è possibile fare la visita privata e pagare solo il ticket sanitario quando le Asl non sono in grado di assicurare la prenotazione in tempi brevi.

La Sanità pubblica è sempre più in difficoltà tra tagli di denaro e medici che se ne vanno; tutto ciò ricade sui cittadini che subiscono i disagi e le lungaggini delle attese per visite ed esami.  Quello maggiore è sicuramente  rappresentato dalle lunghissime liste d’attesa per prestazioni negli ospedali pubblici, che costringono i pazienti ad decidere per una costosa prestazione privata in modo da accorciare i tempi.


Ma esiste una legge che obbliga le Asl a elargire le prestazioni entro un termine massimo altrimenti il cittadino può rivolgersi a una struttura privata pagando però solo il tichet, come se fosse effettuata in una struttura pubblica.

Il decreto legislativo del 1998, n. 124 detta infatti delle direttive precise in materia di liste d’attesa. Il comma 10 art. 3 stabilisce che le Regioni, attraverso i direttori delle Aziende Unità Sanitarie locali e ospedali, devono stabilire i tempi massimi che intercorrono tra la prestazione quando viene richiesta e quando viene erogata. Questo intervallo di tempo deve essere ben divulgato e dovrebbe essere comunicato all’assistito al momento della richiesta della prestazione. L’articolo 3, infatti, tutela il diritto alla prestazione, e prevede che l’assistito possa chiedere che la prestazione venga effettuata privatamente al costo del ticket quando i tempi massimi di attesa superino quelli stabiliti.


Lo conferma anche  Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato-Cittadinanzattiva: «Il diritto ad accedere alle cure pubbliche in tempi certi,  nonostante sia previsto da una serie di norme, nella realtà è ancora troppo poco conosciuto dai cittadini e ostacolato in pratica. Tra le cause c’è la scarsa trasparenza delle amministrazioni sui diritti dei cittadini. Ciò alimenta le asimmetrie informative, che penalizzano ancora una volta i più deboli. Sul rispetto dei tempi di attesa, sul corretto esercizio dell’intramoenia e più in generale sul rispetto dei diritti dei cittadini c’è da migliorare ancora molto dal punto di vista dei controlli, troppo pochi e con molte falle”.

In pratica, chi chiede una prestazione medico-specialistica o un accertamento diagnostico e l’amministrazione risponde  che i tempi di attesa superano rispettivamente i 30 e 60 giorni, può chiedere che la stessa prestazione gli venga fornita in intramoenia, ossia in attività libero-professionale intramuraria, senza dover pagare da “privato” ma pagando solo il ticket.

La differenza di costo è a carico dell’Azienda Sanitaria locale. E se il cittadino ha l’esenzione dal ticket  non paga nulla e il costo è a totale carico dell’Asl.

Nel caso, come accade in alcune realtà, che le ASL blocchino le liste di attesa, l’articolo 3 assicura ugualmente il diritto alla prestazione privata pagando il solo ticket. Bloccando le liste, infatti, l’ASL si pone nella situazione in cui non è in grado di svolgere il suo dovere nei confronti del cittadino.

Per far valere i propri diritti, il cittadino deve compilare un’istanza chiedendo la prestazione in regime di attività libero – professionale. L’istanza va intestata all’Azienda Sanitaria di appartenenza, ed è necessario allegare all’istanza la ricetta medica e la prescrizione del cup.


sabato 17 marzo 2018

Chiariamo il reddito di cittadinanza del M5S


Sul Fatto Quotidiano del 15 marzo, Luisella Costamagna  fa qualche considerazione sul reddito di cittadinanza proposto in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle:

“All’indomani del voto non si è parlato d’altro. “Bari, assedio a Comuni e Caf. ‘Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza’ ”. La Gazzetta del Mezzogiorno serve su un piatto d’argento la notizia perfetta: ecco come hanno vinto i grillini al Sud, con l’assistenzialismo e il voto di scambio 2.0! Politici e media nazionali ci si buttano a capo fitto. Peccato fosse una bufala, il che la dice lunga sul livello della nostra politica – che strumentalizza e ironizza su un disagio sociale reale – e dell’informazione – che invece di verificare, rilancia veline.

E’ bastato contattare Caf e Centri per l’Impiego per sapere che dopo il voto non c’è stata “nessuna frenesia”, “assedio”, “raffica di richieste”, solo “casi isolati”,“assolutamente normali”, già avvenuti per il Reddito d’Inclusione del governo e il Reddito di Dignità della Regione Puglia. Anzi, se code ci sono state di recente, erano per il Rei (a gennaio richieste +30%); eppure non si sono visti titoli su un presunto voto di scambio del Pd. Un classico.



In queste ore Bankitalia dice che il nostro paese è sempre più diseguale, che gli italiani a rischio povertà sono cresciuti nel 2016 al massimo storico del 23%, e gli stessi politici che si vantano di averci portati fuori dalla crisi – come no! – continuano a fare campagna elettorale sulla pelle dei più deboli. Invece di portare rispetto per il disagio, capire che sono stati puniti nelle urne per la carenza di risposte, riconoscere che bisognava abbracciare non Marchionne ma chi, con umiltà e imbarazzo, è costretto a chiedere aiuto, fanno battute: “Ora vediamo coi grillini-bancomat come starete meglio”.

Sul reddito di cittadinanza (se mai sarà approvato) occorre fare chiarezza:

1) con fondi diversi, c’è già il Rei del governo e pure il programma del centrodestra parla di “azzeramento della povertà” e “sostegno agli indigenti per ridargli dignità economica”;

2) il Parlamento europeo ha approvato a ottobre una risoluzione per introdurre negli Stati membri un reddito minimo per i più deboli. Tutti grillini?

3) il reddito 5S non è un’alternativa al lavoro, bensì un reddito minimo “condizionato”: all’iscrizione ai Centri per l’Impiego, all’accettazione di una delle prime 3 offerte di lavoro (se si rifiuta o ci si licenzia subito dopo senza giusta causa, si perde il diritto) e all’impegno in progetti sociali del Comune per 8 ore a settimana;

4) 780 euro al mese è la cifra massima, per un single privo di altre entrate. Chi ha un reddito otterrà la differenza tra quel che guadagna e quella soglia;

5) Di Maio non l’ha promesso subito, bensì “entro il primo anno di governo”, previa riforma dei Centri per l’Impiego;

6) i costi (15 miliardi per l’Istat, 29 per lavoce.info) si copriranno, secondo i 5S, con tagli agli sprechi e in deficit (con più “attivi” e più Pil potenziale). Spetta a loro dimostrare che è possibile;

7)in Finlandia, dove da un anno si sperimenta un reddito minimo incondizionato (nessun obbligo di cercare lavoro) da 560 euro per 2 mila disoccupati, cos’è successo? Meno ansia e quindi meno spese per la sanità pubblica; stimolo a rientrare nel mercato; riconoscenza verso le istituzioni e più tempo dedicato al volontariato. Invece di sbeffeggiare chi è in difficoltà, forse è il caso di imparare da loro.”

Gomez: trappolone per fregare il M5S


Il direttore del sito del Fatto Quotidiano Peter Gomez, in un'intervista a “La Notizia” dice che, secondo lui, si cercherà di fare un governo cercando di fregare il M5S, primo partito votato alle elezion i del 4 marzo:

Finirà con un Governo”, primo perché mi sembra impossibile, guardandola anche nell'ottica del Quirinale, tornare a votare prima dell’estate. Secondo perché, come diceva Galbraith, la politica non è l’arte del possibile ma consiste nello scegliere tra il disastroso e lo sgradevole. Molti parlamentari hanno speso decine di migliaia di euro per la loro campagna elettorale, perciò ci penseranno due volte prima di dare l’ok a staccare la spina. E poi, Forza Italia e Pd sanno dai nuovi sondaggi che circolano in queste ore che andando a nuove elezioni il voto si polarizzerebbe ulteriormente su Lega e M5s facendogli perdere parlamentari. A quel punto, ragionando dal loro punto di vista, meglio far partire un Governo”.



Sì, ma quale Governo? E con chi?“Se ragioniamo sui numeri è chiaro che l’ipotesi di un Governo col Centrodestra di base appaia come quella più praticabile, visto che al M5s mancano molti più voti in Parlamento. Se spostiamo il ragionamento sui programmi, un asse fra grillini e Pd non è assolutamente da escludere. Magari considerando il reddito di cittadinanza per quello che è, cioè un sussidio di disoccupazione, e individuando congiuntamente una platea al quale destinarlo. Vedremo. Sicuramente, checché ne pensi e dica Salvini, sarà un Governo coi dem a fare da ago della bilancia”.



E Gomez continua:

Perché ne è così sicuro?“Dai colloqui che ho avuto in questi giorni con numerosi attori del mondo politico, mi risulta che Renzi stia pensando di ‘staccare’ la sua pattuglia dal partito per fare in modo da garantire un appoggio al Centrodestra. Il fatto che Verdini, che fa il tifo per uno scenario del genere, si sia ripresentato da Berlusconi una settimana fa è un indizio. Vede, secondo me i dem stanno facendo un errore di fondo…”.

Ovverosia?“Considerare l’appoggio o addirittura l’ingresso in un Governo come la loro pietra tombale. Ma se si costruisse un programma preciso che portasse a risultati concreti i dem potrebbero anche rivendicarli nella prossima campagna elettorale”.

La partita però passa dall’elezione dei presidenti delle Camere…“Sì, e se sono vere le voci che parlando di un gradimento del Pd al Senato per Paolo Romani di FI, condannato in via definitiva per peculato, vuol dire non aver capito granché di cos’è successo veramente il 4 marzo. Un partito che ha perso milioni di elettori che dà l’ok ad avere una seconda carica dello Stato con un precedente simile sarebbe un autogol clamoroso”.

Altro nodo da sciogliere è quello della legge elettorale. Salvini dice che si può fare tutto in una settimana…“Sì, lui dice questo, ma la realtà è ben diversa dalla fantasia. Stiamo ai fatti. I due partiti considerati vincitori metteranno sul piatto due idee diverse: un premio alla coalizione la Lega e uno al primo partito i Cinque Stelle. E gli altri? Perché dovrebbero dare l’ok a un sistema che rischierebbe di penalizzarli?”.

Visto come gran parte delle “elite” e dell'Europa sanguisuga vedono un governo a 5 Stelle (ne hanno terrore), è probabile che facciano di tutto per andare contro la volontà popolare, non sarebbe la prima volta.

Travaglio: il PD è un manicomio!


A “Otto e mezzo” Lilli Gruber chiede a Marco Travaglio chi sarà il prossimo segretario del Partito Democratico e Marco risponde in maniera simpatica e provocatoria:


Non è facile interpretare i manicomi, dipende da chi prende il potere.” E continua: “I più ragionevoli sanno benissimo, come ha detto Franceschini l'altro giorno, che tornare subito alle urne significherebbe ingrossare le file dei due partiti maggiori, cioè dei 5 Stelle e della Lega, e ridurre il PD al 5 o al 10%. Se vincono loro se la vedranno Franceschini, Gentiloni o qualcuno dei loro. Se invece dovesse vincere Renzi per interposta persona potrebbero tentare, che ne so, una soluzione Del Rio, fermo restando che c'è sempre Zingaretti che ha detto che forse si candida.


Lui pensava alle primarie perché era legato alle regole del PD adesso pare che improvvisamente le primarie facciano schifo e quindi che nessuno le voglia più fare. E quindi pare proprio che quei caminetti che Renzi aveva evocato con orrore nella sua conferenza stampa dopo le elezioni è in realtà il luogo dove si spegnerà.”

Mentre la Gruber lo guarda sempre con aria perplessa (il suo renzismo invece non si spegne), Travaglio continua:

“La direzione di ieri mi ha fatto la stessa impressione che mi ha sempre fatto il Partito Democratico nelle direzioni, che sono l'unico luogo dove avrebbero dovuto discutere la linea del partito ma c'è un partito che non è in grado di discutere perché c'è un padrone,  che è Renzi, e ci sono degli altri che vorrebbero sempre contestargli qualcosa, vorrebbero sempre superarlo e poi non hanno gli attributi per farlo e quindi si mettono sempre a cuccia e aspettano il verbo.

Non c'è un altro leader che sia in grado di prendere il posto di Renzi e quindi si sono immediatamente adattati a una reggenza un po' imbarazzante. Insomma questo Martina è una brava persona ma l'idea che il Partito Democratico possa essere guidato da Martina fa abbastanza ridere. Infatti è un partito allo sbando senza una linea dove si dice ieri ‘noi siamo all'opposizione’ e già oggi si dice ‘siamo disponibili, qualunque cosa ci chieda Mattarella, a prenderla in considerazione’, il che vuol dire che quello che hanno detto ieri non era vero.  Perché se hai deciso di stare all'opposizione è ovvio che Mattarella non ti chiederà di stare all'opposizione. Ma ti chiederà di dare una mano a un governo che serva all'Italia quindi è evidente che siamo in ordine sparso.
Siamo alla baraonda totale, è un manicomio. Fino a quando qualcuno non avrà la forza e i numeri per prendere in mano il partito e prendere una direzione qualsiasi; queste sono direzioni senza una direzione.”

mercoledì 14 marzo 2018

Travaglio: promemoria mancato accordo M5S-PD 2013


Marco Travaglio, sul Fatto Quotidiano del 13 marzo, ha voluto ricordare in maniera cronologica e precisa ciò che avvenne nel 2013 quando il M5S e il PD non riuscirono a collaborare per creare un governo dopo le elezioni. Questo perché lui ritiene che i giornali in questi giorni non stiano raccontando la verità su quei fatti.

Travaglio ricorda quindi, data per data, tutti i passaggi:

26 febbraio. Pd e Pdl perdono le elezioni (-3,5 milioni di voti il primo, -6,5 milioni il secondo) e i 5Stelle le vincono (da 0 a 8,6 milioni di voti). Il M5S è il primo partito in Italia, col 25,5%, poi superato dal Pd d’un soffio grazie agli italiani all’estero. In ogni caso il Porcellum premia le coalizioni e il Pd con Sel arriva al 30 e agguanta il premio di maggioranza (incostituzionale): 478 parlamentari, contro i 242 Pdl e i 163 M5S. Bersani giura: “Mai più larghe intese con B.” e pensa a un suo governo di minoranza Pd-Sel-Centro con l’astensione M5S al Senato (lì gli mancano 17 voti).


16 marzo. Il centrosinistra potrebbe cedere la presidenza di una Camera al M5S, invece se le prende entrambe: Boldrini a Montecitorio e Grasso (grazie ad almeno 13 grillini, allarmati dall’alternativa Schifani) a Palazzo Madama. Ezio Mauro, direttore di Repubblica, dopo anni di demonizzazione dei 5Stelle, auspica un “impegno congiunto di Pd e M5S” per approvare “subito, ora” le leggi che il Pd non ha mai fatto in vent’anni. Ma il Pd, anziché sfidare i 5Stelle su un governo e un programma comune, avvia uno “scouting” sotterraneo contattandoli a uno a uno, ovviamente invano. “Il Pd inizi a rinunciare ai finanziamenti pubblici”, è invece la sfida di Beppe Grillo. I 5Stelle non ritirano i loro 48 milioni, Pd-Pdl&C ne intascano 100.”

Travaglio prosegue parlando poi di Napolitano, il “re” di quei tempi:

20 marzo. Napolitano inizia le consultazioni, ma alla rovescia. Non chiede ai partiti che governo vogliono, ma dice loro che governo vuole: le larghe intese Pd-Pdl-Centro, appena bocciate alle urne. Bersani risponde picche e insiste per il governo di minoranza. Il M5S chiede un governo a tempo e di scopo (legge elettorale e poche altre cose) con un premier fuori dai partiti per tornare presto al voto. B., fra una marcia anti-giudici e una condanna, vuole rientrare in gioco con le larghe intese.

22 marzo. Napolitano sabota Bersani con un “preincarico” esplorativo, condizionato a “numeri certi in Senato”. E invoca “larghe intese”.
Bersani consulta i partiti, il Cai, il Wwf, il Touring Club, don Ciotti e Saviano e annuncia il suo “dream team”, uno “squadrone”. D’Alema gli dice di farsi da parte e indicare Rodotà come premier-ponte verso il M5S. Invano.”


E ancora ricorda il famoso streaming rimasto nella storia del PD:

27 marzo. Ecco il famoso streaming fra Bersani-Letta e Crimi-Lombardi. Incomunicabilità totale. Un po’ per l’immaturità dei 5Stelle, appena entrati in Parlamento e terrorizzati dai trabocchetti. Un po’ per la pretesa francamente eccessiva del Pd del loro appoggio esterno e gratuito a un governo con ministri e programma decisi da chi ha i loro stessi voti. Ma, se anche il M5S accettasse di far nascere il governo Bersani con una ventina di uscite strategiche dal Senato, Napolitano direbbe no comunque: vuole numeri certi e precostituiti. Infatti il vicesegretario Pd Enrico Letta gioca un’altra partita con il Colle: lavora con lo zio Gianni a un accordo con B. in cambio di un nuovo capo dello Stato “condiviso”. Violante offre al Pdl una “Convenzione per riformare la Costituzione”. Altri dem cercano voti dalla Lega e dai dissidenti Pdl di Miccichè. Rosy Bindi è sconsolata: “Siamo partiti incontrando Saviano e finiamo a chiedere i voti a Miccichè”.

28 marzo. Bersani sale al Colle a mani vuote, ma chiede l’incarico pieno. Napolitano glielo nega, insiste per il governo con B. e riapre le consultazioni. Stavolta i 5Stelle hanno in tasca i nomi dei possibili premier super partes: Rodotà, Zagrebelsky e Settis. Ma Napolitano li stoppa prima che li dicano: “Niente premier esterni ai partiti”.

30 marzo. Dopo aver minacciato e smentito dimissioni anticipate sul 15 aprile, Napolitano nomina 10 “saggi” per dettare il programma al futuro governo: tutti di area Pd, Sel, Pdl e Centro, nessuno vicino al M5S.E auspica “larghe intese” per il Quirinale.”


Poi vi sono state le vicissitudini per il nuovo Capo dello Stato che, gira e rigira, rimarrà sempre quello, Napolitano.

“9 aprile. Bersani e Letta incontrano B. e Alfano a Montecitorio, per avviare il dialogo sul nuovo Presidente.
16 aprile. Quirinarie online M5S: vincono Gabanelli, Strada, Rodotà e Zagrebelsky. Grillo si appella al Pd: “Votiamo insieme la Gabanelli, dichiariamo ineleggibile B., poi vediamo. Può essere l’inizio di una collaborazione, sarebbe il primo passo per governare insieme”. Il Pd non risponde, anzi pensa ad Amato presidente eletto con B.


17 aprile. Gabanelli e Strada rinunciano: Rodotà è il candidato M5S. Grillo al Pd: “Votiamolo insieme”. Ma Bersani rivede B. a casa di Enrico Letta e s’accorda con lui su Marini. Renzi: “Marini è un dispetto all’Italia, meglio Rodotà”. Orfini: “Tra Marini e Rodotà, scelgo Rodotà”. I militanti Pd assediano l’assemblea al grido di “Ro-do-tà!”.

18 aprile. Marini impallinato da 218 franchi tiratori. Nasce “Occupy Pd”: tessere stracciate e proteste nelle sezioni di tutt’Italia a favore di Rodotà. Per frenare il dissenso, Bersani molla B. e sceglie Prodi, candidato per acclamazione da tutta l’assemblea dei grandi elettori Pd.

19 aprile. Prodi fucilato alla schiena da almeno 101 franchi tiratori. Ultimo appello di Grillo al Pd: “Se eleggiamo presidente Rodotà, facciamo un governo completamente diverso, facciamo ripartire l’economia. Bersani finora non ha chiesto di fare insieme il governo, ha solo chiesto i nostri voti per il suo”. Aggiungono Crimi e Lombardi: “Se il Pd vota Rodotà, si aprono praterie per il governo del cambiamento”. Con il loro candidato al Quirinale, i 5Stelle non potrebbero mai dire no a un governo col centrosinistra. Rodotà dice a Repubblica: “I dirigenti del Pd mi conoscono da una vita e neanche mi hanno fatto una telefonata. Eppure ho lavorato per anni con loro, quando gli faceva comodo mi cercavano eccome. Io non sono stato scelto da Grillo, ma dalla Rete mesi di sottoscrizioni, firme, appelli”. Ma anche le sue parole cadono nel vuoto. La figlia giornalista Maria Laura rivela sconsolata: “Fantastico: pur di non parlare col garante (il padre, ndr), quelli del Pd chiamano me per convincermi a convincerlo non si sa di che”. Cioè a ritirarsi per fornire loro l’alibi per non votarlo e salvarli dai militanti furiosi. B. chiama Napolitano e gli chiede di farsi rieleggere. Lui, che ha passato l’ultimo anno a smentire il bis, accetta.

20 aprile. Ultimi, disperati tentativi di Barca, Emiliano, Mineo, Cofferati e Civati di portare il Pd su Rodotà. Ma ormai il partito di Napolitano, di B. e dei due Letta ha la partita in pugno. Anche Bersani si arrende. Napolitano elogia B. per il “comportamento da statista”. E lo abbraccia. Così i partiti che hanno perso le elezioni rieleggono Re Giorgio a 88 anni per tagliare fuori chi le ha vinte e resuscitare B.”

E infine la conclusione vegognosa che ha portato l’ennesimo governo non eletto dagli italiani:


“22 aprile. In mattinata, a Palermo, i giudici distruggono i cd-rom con le telefonate Napolitano-Mancino sulla trattativa Stato-mafia, come disposto dalla Consulta. Nel pomeriggio Napolitano tiene il discorso di reinsediamento a Camere riunite: attacca i 5Stelle, strapazza i partiti che l’hanno appena rieletto, ordina un governo di larghe intese e intima la riforma della Costituzione (che proprio in quel momento sta calpestando): se no, minaccia, se ne andrà. I vecchi partiti sotto ricatto si spellano le mani per l’Imbalsamatore dell’Ancien Regime. B. canta “Meno male che Giorgio c’è”. Bersani, scuro in volto, tamburella con le dita sul suo banco sul ritornello: “Ro-do-tà, Ro-do-tà…”.

23 aprile. Incontro a Roma fra Letta jr. e Renzi, che telefonano a B. per sapere chi dei due preferisca come premier. Lui risponde: ”Enrico Letta o Giuliano Amato”.

24 aprile. Napolitano incarica Letta jr. per un governo con tutti i partiti sconfitti alle elezioni di due mesi prima. E i vincitori fuori.”


Abusivismo solo per i terremotati



Il Fatto Quotidiano, 14/03/18
Ha veramente dell’assurdo la contestazione della magistratura al centro polivalente costruito a Norcia con i soldi donati a La7 per i terremotati, come sono assurde tutte le altre cause in corso epr lo stesso motivo e nelle stesse zone.
In Italia siamo pieni di costruzioni abusive, di rifacimenti e ampliamenti non denunciati, addirittura di inquilini abusivi e si contesta una struttura provvisoria e utile per questa gente toccata dalla tragedia del terremoto? Spesso i soldi delle donazioni non si sa dove vadano a finire o rimangono fermi in attesa di progetti inutili ma che arricchisono qualcuno.


 
Per una delle poche volte che i soldi donati sono serviti per qualcosa di utile ci si mette in mezzo la magistratura sempre troppo zelante in questi casi ma molto meno in altri. Ormai sono tanti che pensano che donare denaro per le tragedie sia inutile e arricchisca solo le tasche sbagliate, sicuramente queste inchieste aiuteranno a dissuaderli ancora di più. La solita giustizia a rovescio.

Gli "Avvoltoi" che si arricchiscono con i nostri soldi

Mario Giordano esce con un altro libro di denuncia: "Avvoltoi" (Ed. Mondadori, 19 euro, 200 pagine). Il saggio è un atto d’accusa a chi impoverisce l’onesto cittadino italiano che si trova sommerso di tasse da ogni parte.

Mentre noi continuiamo a pagare c’è chi si arricchisce alle nostre spalle. Giordano va a caccia di questi uomini, noti o meno, figure imprenditoriali e politiche che sfruttano in qualche modo il cittadino che contribuisce all’andamento dello Stato mentre costoro riescono a eludere la legge e a guadagnarci pure.
Partendo dall’accurata e attendibile analisi di Federconsumatori, Giordano esamina e critica tutte le tasse che negli anni sono aumentate vertiginosamente, gravando così sull’andamento quotidiano delle famiglie.
Negli ultimi dieci anni l’acqua è aumentata del 89%, i rifiuti del 50% e i trasporti ferroviari del 46% portando il paese sempre più sul lastrico. Eppure abbiamo servizi sempre peggiori: treni insicuri e superaffollati, autobus in ritardo, rubinetti a volte asciutti, cumuli di rifiuti sotto casa, discariche a cielo aperto, ponti che crollano. I cittadini sono esasperati ma inermi.


Però ora chi si è arricchito ha un volto in "Avvoltoi". Sono avventurieri, notabili, profittatori e faccendieri che, giorno dopo giorno, hanno aggiunto qualche soldo alla loro cassa, svuotando al contrario le tasche degli italiani.

Il nuovo libro è dedicato proprio a questi personaggi che annientano il Paese alla faccia dei cittadini e che hanno le tasche piene dei nostri soldi.   Dietro i servizi che non funzionano, infatti, non ci sono solo il caso e la solita italica inefficienza. Ci sono anche tante persone che si arricchiscono. Ed è per questo che i servizi non funzionano, perché a troppi conviene che vada così. "Avvoltoi" è un viaggio esclusivo tra le vere ragioni dei nostri disagi quotidiani.
I treni non funzionano? Il ras delle ferrovie pugliesi, però, ha accumulato un tesoro di 180 milioni di euro.
I rifiuti sono un problema? Ma all’intermediario veneto rendono 3,5 milioni di euro in pochi giorni.
I rubinetti sono a secco? Eppure i liquidi continuano a scorrere nelle tasche dei manager romani che guadagnano anche 200.000 euro al mese.

Per i trasporti pubblici spendiamo 6000 euro al minuto come contribuenti, più i biglietti che paghiamo da utenti. Perchè ogni anno mettiamo in circolazione nelle nostre città 200 autobus usati? Perchè dobbiamo avere gli autobus usati mentre gli altri Paesi europei hanno quelli nuovi? Forse perché noi buttiamo i soldi in consulenze d’oro, per esempio i 3 milioni di euro che hanno arricchito l’allegra famigliola incaricata di sistemare l’archivio storico delle malandate Ferrovie del Sud Est?


Com’è possibile che in Sicilia l’acqua passi da una società privata all’altra senza mai arrivare nelle case dei siciliani?
La recensione del Fatto Quotidiano, 13/03/18
E perché dobbiamo continuare ad arricchire i padroni delle autostrade, da Gavio a Benetton, grazie alla gentile concessione dello Stato, ci sfilano dal portafoglio 5 miliardi di euro?

Questa inchiesta di Giordano svela per la prima volta, e con un linguaggio comprensibile a chiunque, gli interessi nascosti che stanno depredando la nostra vita quotidiana. Quello, insomma, che ogni giorno ci ruba tempo, salute, soldi e serenità. Il libro è stato scritto con una speranza: gli "Avvoltoi" di tutti i luoghi e di tutte le epoche, infatti, hanno un unico grande alleato: l’oscurità. Portarli alla luce e guardarli in faccia significa già cominciare a sconfiggerli.

Come possiamo reagire e cambiare la situazione? Mario Giordano azzarda anche una provocatoria proposta interessante da leggere.